13 dic 2017

Santa Lucia... La notte più lunga che ci sia?


Santa Lucia in Svezia
Ci è capitato, approssimandoci alle feste dicembrine, di trovare esposti sugli scaffali delle librerie –  inondati da volumi, ricettari e cartonati dalle tinte rosseggianti, corredati degli immancabili Babbo Natale, Pupazzi di Neve, Pan di Zenzero e panettoni – due albi illustrati che hanno destato la nostra attenzione, se non altro perché, in apparenza, scollegati dall’immaginario più consueto del Natale “globalizzato”. Si tratta di La notte di Santa Lucia (2016) di Sara Agostini, finemente illustrato da Chiara Raineri, e Le più belle storie di Santa Lucia (2017) di Valentina Camerini e Caterina Martusciello, entrambi pubblicati da Gribaudo. La scelta dell’editore di dedicare, a distanza di un anno, ben due delle sue pubblicazioni “natalizie” al personaggio di Santa Lucia ci è parsa rilevante: una tradizione – quella della martire siracusana che nella notte fra 12 e 13 dicembre dispensa doni ai bambini buoni – italianissima (per questo, si direbbe, più sconosciuta e “marginale”), che è presentata, al pari dei “classici”, come massimamente degna di nota.



Tutti hanno probabilmente ascoltato almeno una volta genitori o nonni sospirare, giunti i primi freddi, “Santa Lucia, la notte più lunga che ci sia”. Fare luce sull’origine del proverbio, approfondendo poi la leggenda di Lucia e gli usi folklorici connessi a questa festa, può essere un ottimo spunto per cominciare ad addentrarsi nel denso patrimonio – mitico, religioso e fiabesco –  soggiacente al “Natale” cristianizzato.
La «Grande Festa» di Natale/Capodanno – usando l’espressione adottata dagli antropologi per designare il complesso di miti e riti che circonda, nella società agraria, la “crisi solstiziale” come “rischioso” passaggio da un ciclo naturale all’altro – cade a ridosso del 21/22 dicembre, cioè dell’inizio dell’inverno, stagione buia e fredda in cui le sementi riposano nella terra. Il calendario cristiano, formatosi a partire dal IV secolo sulla base di quello romano, scelse di porre la Natività di Gesù Cristo il 25 dicembre, giorno in cui, nella Roma imperiale, si celebravano due feste particolarmente sentite: il dies natalis di Mitra e l’alba del Sole Invitto, entrambe di derivazione orientale. 
Al momento di intervenire sul calendario romano – già rielaborato e parzialmente corretto da Giulio Cesare nel 46 a.C. – la Chiesa si confrontò con una ormai “scandalosa” imprecisione accumulatasi col procedere dei secoli: come ricordano Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi, «ad esempio, tra il 1325 e il 1350 il solstizio invernale cadeva, anziché il 21 o il 22, il 13 dicembre, giorno di Santa Lucia» (Tenebroso Natale, p. 18). 
Fu proprio in quell’occasione che nacque il proverbio che legò la festa di Santa Lucia al “trionfo della tenebra”, la notte più duratura dell’anno, che è però anche il punto a partire dal quale le giornate ricominciano ad allungarsi. Il fatto che sia citato ancora oggi testimonia l’eccezionale forza conservativa della tradizione folklorica, incapace di arrendersi alle riforme “dotte” del proprio tempo ciclico/rituale. Infatti, nonostante l’errore di datazione fosse stato corretto nel 1582 col nuovo calendario gregoriano – che colmò lo scarto di dieci giorni e introdusse il noto meccanismo degli anni bisestili per evitare che si ripresentasse –, il detto sul “giorno più corto che ci sia”, “vero” soltanto nel Medioevo, è tuttora assai popolare. 
In conseguenza delle rocambolesche vicissitudini calendariali che la interessarono, la festa dedicata alla santa, martirizzata all’inizio del IV secolo, si trovò così ad essere caratterizzata di tutti quegli elementi tipicamente “solstiziali” ricorrenti nelle date di passaggio stagionale, ovvero nei momenti magici della morte e della rinascita simbolica del sole. Non è un caso che la patria della Lucia cristiana, la casta fanciulla descritta dalle agiografie medievali, sia proprio Siracusa, il cui cuore è l’isola di Ortigia, antica culla dove sorgeva un tempio in onore di Artemide, la dea lunare della luce, partorita miticamente da Latona insieme al fratello Apollo, dio solare. Questa è infatti l’isola delle quaglie – animali peraltro simbolicamente significativi perché consacrati a divinità femminili –, riconducibile probabilmente all’arcaica Delo.
Il culto della santa è quindi “geneticamente” collegato alla dea della luna crescente, all’antica regina notturna, infera, invernale. La vergine siracusana eredita, nel “pantheon” cristiano/pagano, il medesimo patronato “astrologico” della sua antenata greco-romana: il suo nome si riferisce d’altra parte direttamente alla sfera luminosa, derivando appunto dal greco lýke e dal latino lux, lucis, termini che significano entrambi luce. Tale connessione giustificherebbe anche il suo ruolo di protettrice della vista, che rende la santa una delle più popolari, come la sua diffusa iconografia, che la dipinge con un piattino in mano su cui sono appoggiati i suoi occhi.
Inoltre la “fama” della santa sarebbe dovuta o alla leggenda medievale secondo cui Lucia, «per non cedere alle suppliche del fidanzato, che non voleva accettare la sua decisione di consacrarsi vergine al Cristo, si sarebbe strappata gli occhi» (Lunario, p. 402) oppure alla tradizione che narra che ella avrebbe esclamato, durante il suo martirio: «ai non credenti toglierò l’accecamento». Il 13 dicembre, infatti, moltissimi fedeli si recano nelle chiese a lei dedicate per chiederle di vegliare sulla loro vista. A Siracusa si inscena un vero e proprio pellegrinaggio, una grandiosa processione che accompagna l’argenta statua seicentesca della santa dalla cattedrale all’isola di Ortigia, nella basilica di Santa Lucia al Sepolcro, finché il 20 dicembre viene ricondotta nella cattedrale, fra luminarie e fuochi d’artificio, luci caotiche e propiziatorie.


È curioso notare come anche in terra svedese la santa goda di molta popolarità da quando, nel 1927, un quotidiano della capitale decise di bandire un concorso per eleggere la “Lucia di Svezia”, colei che doveva raccogliere, adornata con una corona di sette candele e accompagnata da una schiera di compagne vestite, come lei, di sole tuniche bianche, doni natalizi da distribuire il 13 dicembre ai bisognosi, ai malati e agli anziani, agli invisibili della società, che, come notano gli antropologi, nei momenti di festa assumo un ruolo preminente (essi sono, insieme ai bambini, i privilegiati vicari dei morti). L’iniziativa - la cui origine risale forse a La leggenda del giorno di Santa Lucia, premio Nobel per la letteratura, scritto nel 1912 da Selma Lagerlöf, - divenne tradizione nazionale e si collegò infine alla festa siciliana. A partire dal 1950, l’eletta “Lucia” svedese si reca infatti tutti gli anni a Siracusa per partecipare alla processione finale che conclude l’ottava, il 20 dicembre.
La festa di Santa Lucia a Siracusa

In tutta la Sicilia, in occasione della festa del 13 Dicembre, che precede il vero e proprio capodanno avvenire, non si mangia pane per penitenza “in onore della martire siracusana”. Il folklorista palermitano Giuseppe Pitrè ricorda nei suoi scritti ciò che si mormorava nelle contrade isolane, ovvero che la santa, secondo la credenza popolare, avrebbe conservato per sempre la vista a chi si fosse astenuto in questo giorno dalla farina di frumento e a chi si fosse cibato solo di “robaccia”:

In Palermo e in quasi tutta la Sicilia il dì 13 dicembre non si mangia pane, almeno da quella gente che riconosce una facoltà non comune in questa santa vergine, secondo la leggenda, accecata da un imperatore romano, alle cui malsane voglie non cedette. Ma in compenso e come per penitenza si mangiano legumi, verdure, pattona ed altre cose simili, sole o messe insieme. (Spettacoli e feste, p. 427)

Nei giorni che precedono la festa le botteghe iniziano a riempirsi di panelle, pattone cucinate con farina di ceci, sotto varie forme, come i pisci-panelli, appunto a forma di pesce. Si mangia inoltre la cuccìa, grano ammollato e cotto con altri legumi in acqua semplice o nel latte. In proposito è interessante notare come Alfredo Cattabiani rinvenga in queste usanze gastronomiche uno stretto legame con le altre ricorrenze stagionali, in cui le leguminose rappresentano visivamente il mondo vegetale, larvale – ancora in forma di chicco –, il mondo ctonio del sotterraneo, dunque il regno popolato dai morti, i quali, nei momenti critici dell’anno, si mescolano al mondo dei vivi, escono “a far festa”, mangiando quel che trovano sui davanzali delle finestre e lasciando in cambio qualche dono ai bambini o promettendo il buon esito del prossimo raccolto. Un’audace interpretazione pitreiana connette le usanze della festività di Santa Lucia a tradizioni precristiane, legate al ritmo ciclico del succedersi delle stagioni:

Fu detto che, come presso gli Antichi agli 11 novembre si gustava il mosto appena spremuto, così è verisimile che gli Antichi stessi avessero, appena raccoltolo nell’aia, cotto il frumento e mangiato di esso come di novello cibo; del qual uso sembra tutt’ora perdurare la memoria in quei luoghi di Sicilia dove la cuccìa, cioè il frumento lesso, viene mangiato nel mese di luglio, che è appunto il mese di sua raccolta… costumanza di varie città orientali dell’isola. (Spettacoli e feste, p. 428)

Secondo l’interpretazione del Krappe, d’altro lato, gli attributi e il ruolo della Lucia siracusana – proprio come di sant’Agata a Catania – sarebbero stati mutuati da quelli dell’antica Dea della terra, (Agathé Theà, Bona Dea). Come rilevato da Petoia, infatti:

Quest’ultima era chiamata con gli attributi di Lucifera ed Oclata, mentre in un’iscrizione si parla di essa come di Restituta, ob luminibus restitutis. Le Virtù oftalmiche di Lucia deriverebbero da quelle della Dea Demetra, dea della terra e della fertilità. Questa dea, come recitano alcuni versi dell’Antologia Palatina, e come si evince da vari rilievi scavati nel sito del vecchio tempio di Eleusi, aveva la stessa reputazione di dea oftalmica. Da tutti questi dati risulta che Lucia non è altro, quindi, che una forma cristianizzata delle divinità latine Bona Dea Oclata o Lucifera, e che il suo nome stesso, derivato dall’epiteto dato alla vecchia divinità e di cui assunse la funzione principale, quella di guarire le infermità degli occhi, rappresenta una tradizione continua (Storia e leggende di Babbo Natale e della Befana, p. 193).

Ciò che più ci interessa è che anche Santa Lucia – come molteplici altre figure compresa la nostra, più nota, Befana – sia tradizionalmente reputata dispensatrice di regali e di dolciumi per i buoni bambini. Quanto all’Italia:
La martire siracusana è attesa come portatrice di doni in alcuni paesi del Bellunese, del Trevigiano, compresa Treviso, e anche nel Veronese, tant’è vero che ai bambini dei paesi dei Lessini si racconta che Lucia, seguita dall’asinello carico di doni, parte da Verona e risale le valli. I bimbi preparano nella stanza dove dormono un piatto di fieno e semola per l’animale, mentre i genitori raccomandano loro di addormentarsi presto e di chiudere bene gli occhi perché altrimenti la santa li accecherà gettando loro cenere. (Lunario, p. 404)
Santa Lucia portatrice di doni, ill. di Elsa Beksow
La santa e il suo asinello erano attesi nella notte fra il 12 e il 13 dicembre, erano amati – in certi paesi del Trentino si pongono sulle finestre scodelle di crusca per l’animale – e temuti (la santa destina ai più capricciosi una frusta ammonitrice). Nel Bergamasco, in questa ricorrenza, si regalavano dei dolci speciali, badì dè dama, che venivano legati ai lacci delle scarpe, appositamente depositate sul davanzale della cucina la sera precedente, in attesa di essere riempite al passaggio della benevola santa. 

È specialmente nei paesi scandinavi che la Lucia natalizia portatrice di doni si presenta con molteplici dei tratti delle sue antecedenti pagane, venendo ad essere – conclude Petoia - il «risultato di un sincretismo religioso o addirittura, come sostiene Meisen, una figura che fa parte del processo evolutivo Lucifero-Lucia-Berchta» (p. 194). 
Approfondiremo la questione dedicandoci in altra sede alla “Befana”. Per il momento ci basta notare come Santa Lucia rievochi, al pari delle altre donatrici tradizionali (sante, fate o streghe che siano), gli attributi mitici della divinità, maschile o femminile, a capo della “schiera dei morti implacati”, della “caccia selvaggia” dei defunti, che tornerebbero in particolari ricorrenze a visitare - beneficiandoli di doni o punendone le trasgressioni – i loro familiari. Questo nesso si evincerebbe, fra l’altro, dall’usanza di organizzare il 13 dicembre cortei mascherati, capitanati proprio da “Lucia”. La maschera da animale – come anche il ricoprirsi di pelli, mantelli o sporcizia – simboleggia nel folklore proprio il morto questuante:

I cortei mascherati che si tengono in Svezia il giorno di Santa Lucia sono simili, non solo tipologicamente, a quelli delle altre regioni d’Europa. I giovani si travestono da donna e le ragazze da uomini, e vanno in giro di casa in casa trascinandosi dietro un giullare. In altre zone i giovani si vestono da mostri o spettri. Talvolta hanno una camicia bianca e paglia intorno alle gambe e ai piedi, mentre nelle regioni orientali della Svezia, questi giovani erano completamente ricoperti di paglia. Si tratta sicuramente di un rito antichissimo, che nel corso degli anni è stato sostituito da uno più recente (Storia e leggende di Babbo Natale e della Befana, p. 195).

E infine, proprio l’asinello che accompagna Lucia come la Tante Arie, fata/Befana francese, è associabile dal punto di vista antropologico all’immagine dell’antenato che, in determinati periodi stabiliti e ritualizzati, cavalca in pellegrinaggio sulla terra: «Le iconografie fantastiche dei portatori o portatrici di doni accanto ad un asinello raffigurano quindi un momento preciso, quello della grande festa, durante la quale gli antenati tornano nelle case per mezzo di questo animale e vi lasciano doni per i loro discendenti. […] Gli antenati donatori, i santi che si venerano nel periodo invernale, giungono in volo a cavallo di un asinello fatato, oppure arrivano a piedi e girano per le case accompagnati da questo asinello carico di doni, per lasciarli nelle case e ricevere in cambio le offerte» (L’incanto e l’arcano, p. 27).
Tante Arie, fata-befana

Silvia Ippolito e Marlisa Spiti


Bibliografia:

Baldini eraldo; Bellosi Giuseppe, Tenebroso Natale. Il lato oscuro della grande festa, Laterza, Roma-Bari 2015.

Cattabiani Alfredo, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Mondadori, Milano 2016.

Cattabiani Alfredo, Lunario. Dodici mesi di miti, feste, leggende e tradizioni popolari d’Italia, Mondadori, Milano 2015. 

Corvino Claudio; Petoia Erberto, Storia e leggende di Babbo Natale e della Befana. Origini, credenze e tradizioni di due mitici portatori di doni, Newton Compton, Roma 1999.

Manciocco Claudia; Manciocco Luigi, L' incanto e l'arcano. Per un’antropologia della Befana, Armando, Roma 2006.

Pitrè G., Spettacoli e feste popolari siciliane descritte da Giuseppe Pitrè, volume unico, L. Pedone Lauriel, Palermo 1881.


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